ALESSANDRO SERRA

CURRICULUM

Regista, autore, scenografo, light designer.  Nel 1999 fonda la Compagnia Teatropersona, con la quale mette in scena le proprie opere presentate in molti paesi europei, oltre che in Asia, Sud America, Russia, Regno Unito.
Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il premio Hystrio alla regìa, il Grand Prix “Golden Laurel Wreath Award” come miglior regista (MESS Festival – Sarajevo) ed il premio Le Maschere del Teatro Italiano come Miglior Scenografo.

Da oltre venti anni fotografa le immagini della realtà.

BIOGRAFIA

INFANZIA E TEATRO

Da bambino in collegio, nei giorni neri, cercavo Gesù.
Mi bastava vederlo sorridere.
Non dovevo far altro che avvicinare gli occhi alla sua immagine
e tenerli aperti, senza mai battere ciglio, fino a farli lacrimare.
Allora chiudevo gli occhi
e vedevo Gesù.
Poi un giorno, forse,
la mia prima regia:
iniziai i miei compagni alla sacra visione.
Eravamo lì, con gli occhi chiusi che giravamo su noi stessi, come pulviscolo al sole.
Si faceva teatro in collegio.
Si cantava (quelli intonati, gli altri muovevano solo la bocca).
Si danzava.
Ma questo era solo il teatro delle suore.
Il nostro, quello segreto, non si può raccontare.
Intagliavo con la lametta del temperamatite pezzi di corteccia.
Ne facevo figure sbilenche cui davo voce.
Il mio primo teatro di figura.
E quando tornavo a casa era proibito giocare.
C’era una nicchia nel muro, molto alta, con dei ripiani,
chiusa da una tenda come un sipario.
Portavo la scala, salivo fino all’ultimo gradino e aprivo la tenda,
e dietro al sipario, sulla mensola più alta,
i miei pupazzi:
soldati della prima guerra mondiale, statuine del presepe, animali di ogni genere, cowboy, indiani,
la capanna della natività e il Fort Apache.
Lì, per anni, ho composto l’universo.

PRESENTIMENTI

A 11 anni ho iniziato a praticare lo sport più bello che esista, il rugby.
Un rito di guerra che è filosofia:
per fare meta e andare avanti si deve passare la palla indietro.
Pura trascendenza.
Un esempio insuperato di squadra
e di gruppo:
perché non si può fingere di essere insieme quando si va in guerra.
E la guerra va ritualizzata perché è un istinto innato,
e piuttosto di rischiare che succeda davvero
meglio farne un gioco, il rugby.
O un’arte, il kung fu.

Ho praticato arti marziali per dieci anni,
e ho iscritto nel mio corpo alcune leggi fondamentali,
accennate certo, ma presenti e indelebili.
Mai avrei immaginato che le avrei riscoperte, molti anni dopo, sui libri e poi di nuovo in teatro.

A 18 anni ho iniziato a scattare fotografie
e non ho più smesso.
Grazie alla fotografia ho iniziato a vedere la realtà con un occhio solo
e in apnea, per non far venire mossa la foto.
Grazie alla fotografia ho imparato che con la luce si può comporre, comunicare, trasmettere emozioni.

UNIVERSITÀ

Ho studiato Antropologia.
Poi ho scoperto il cinema,
e ho trascorso anni a cercare di capire come fare senza osare farlo.
Ho trascritto per il teatro molti film di Bergman,
me ne è rimasto uno, non so perché, Il rito.
Andavo a volte a teatro
ma mi sembrava poco più che un vecchio animale morente.
Poi una sera ho visto Leo De Berardinis
e ho pensato che se quello era teatro allora dovevo fare teatro.
Una settimana dopo ho conosciuto Perla Peragallo,
ma la cosa è finita lì…
porto con me i suoi occhi belli e profondi.

Da Antropologia sono passato al Teatro Ateneo,
nello stesso dipartimento dove in passato,
stento ancora a crederci,
tenevano lezioni Jerzy Grotowski, Eduardo De Filippo, Carmelo Bene, Peter Brook.
Ho scritto una tesi di laurea sulla drammaturgia dell’immagine
ed è stata un’occasione preziosa per dare nome a ciò che non sapevo di avere imparato in anni di ricerca e creazione.

FORMAZIONE

Nel frattempo per alcuni anni mi sono inflitto una formazione da attore sul solco della tradizione di Grotowski.
Una formazione che è avvenuta con e attraverso gli attori.
Quelli da cui ho imparato e che sono stati i miei insegnanti,
ma soprattutto gli attori con i quali ho creato le prime opere.
Realizzando i primi spettacoli, fallendo e ricominciando, ho imparato anche il mestiere di regista.
Ed è un bene, credo, che ciò sia avvenuto attraverso il mio corpo e la mia voce in armonia con quella degli attori che mi hanno accompagnato nel corso degli anni.
Ho imparato anche quando immaginavo di insegnare loro qualcosa che ancora non conoscevo.
E negli anni ho continuato a imparare dagli attori che ho incontrato, soprattutto quelli con una formazione lontana dalla mia.
Anche in questi ultimi mesi…
È solo attraverso il lavoro dell’attore che si rivelano i segreti dell’arte scenica.
Non ho mai voluto studiare con un regista. Il che non significa che non abbia studiato regia.

PRIMI INCONTRI

Devo a Francis Pardeilhan gran parte della mia formazione da attore: il lavoro sulle azioni fisiche, l’acrobatica, la voce, i risuonatori, un sapere che proviene in qualche misura dall’Odin Teatret, ma anche e soprattutto da Ingmar Lindth con cui Francis ha studiato.
E non è un caso, forse, che in seguito io abbia avuto la necessità di esplorare le fonti:
Decroux (presso cui Lindth aveva studiato) e Grotowski (verso cui poi si era diretto).
Francis mi ha insegnato a non avere pregiudizi e ad assumere una posizione umile rispetto alla pratica scenica, poiché uno sguardo umile si proietta aldilà di ogni confine,
mi ha insegnato l’etica della professione.

César Brie è un poeta e, in quanto tale, non ha segreti, sa che la metrica è alla portata di tutti. Quello che mi ha insegnato è semplice e disarmante, non è stato necessario seguirlo in Bolivia, come avevo pensato di fare. In pochi, sporadici incontri è riuscito a farmi pensare la scena, come titola ancora oggi il suo seminario.

TEATROPERSONA

Nel 1999 ho fondato Teatropersona.
Un anno dopo eravamo un piccolo gruppo, a Civitavecchia.
Abbiamo cercato un luogo e lo abbiamo trasformato in teatro.
Con le nostre mani.
Abbiamo praticato il training per molti anni:
ci siamo allenati, abbiamo acquisito abilità e competenze fisiche e vocali.
Dopo molti anni di pratica ho capito che il training serve a liberarsi, non a nascondersi.
La via negativa di cui parla Grotowski è quella che conduce alla totale trasparenza del corpo dell’attore, affinché possa acquisire il coraggio di essere vulnerabile, il coraggio di rivelarsi e mostrare la ferita segreta.
Da un certo punto in poi, il training è stato integrato nel processo creativo e oggi ogni nuova creazione impone la scoperta di un nuovo allenamento fisico e vocale.
Durante le prove sono sempre in scena con gli attori.
Si va avanti con il training e le improvvisazioni finché a un certo punto iniziano a fidarsi di me,
da quel momento in poi comincia il vero processo creativo, quando cioè l’attore non si difende più, depone le armi e si espone.
È accaduto, a tratti, per la prima volta con il primo spettacolo:
“Nella città di K.”, tratto da Agota Kristof.
Dico a tratti perché quel racconto era talmente grande e doloroso e noi talmente giovani e inesperti.
Io certo troppo sicuro di me.
Erano gli anni in cui la forma ha preso il sopravvento e ha sovrastato gli attori.
Ma forse è stato anche necessario, eravamo giovani e come dice Zeami
il giovane attore in scena senza maschera è uno spettacolo agghiacciante e inguardabile.
Ora forse sono gli anni in cui la maschera si toglie ed è lecito proporre a me stesso e agli attori la sfida zen: Mostrami che faccia avevi prima di venire al mondo.

PRODIGIOSE SUPPLENZE

Non sempre chi non ha maestri ha per maestro il diavolo, dice Cristina Campo.
Viviamo in un’era di sostituzioni e prodigiose supplenze sono ancora concesse.
Nel teatro riconosco tre maestri che hanno nutrito e influenzato profondamente il mio lavoro.
Grotowki, che ha raggiunto nell’arte dell’attore una profondità che sembrava impensabile.
Kantor è l’artista che più amo e dal quale ho molto imparato sulla scrittura di scena, sull’uso degli oggetti e del bio-oggetto, ma anche sul l’arte dell’attore e sulla drammaturgia.
La classe morta resta il capolavoro del ’900 teatrale.
Peter Brook, i cui scritti continuano ad accompagnarmi in ogni ambito, dal training alla pedagogia, allo studio di Shakespeare, che nessuno ha saputo leggere come lui.
Poi ci sono le letture dell’anima, il nutrimento costante: i Quaderni di Simone Weil.

PITTORI

Ho imparato molto sulla scrittura di scena studiando i pittori e leggendo i loro scritti, quando possibile. Il Trattato della pittura di Leonardo, gli scritti di Klee, le lettere a Theo, le interviste a Francis Bacon…
Lo studio dell’arte figurativa è stato fondamentale per la composizione dello spazio, della luce, per la qualità del tempo che scorre in scena, per la creazione di un’acustica visiva.
Grazie ad Hammershøi sono riuscito a entrare nella camera oscura interiore di Proust.
Con Hopper ho riscoperto che l’intento dell’arte è tentare di dare corpo alla vita interiore.
Le opere di Francis Bacon mi procurano un’emozione che non so spiegare, forse per come appaiono nello spazio, sono di una forza animale che trafigge.
Bacon ha dato nome a uno strano fenomeno che accompagna tutti i processi creativi dei miei lavori degli ultimi anni.
La fortuità.
Contro la volontà di illustrare un’idea e una visione…
Ed è questo il motivo per cui mi occupo di ogni aspetto della scrittura: luci, scene, costumi, parole, immagini, oggetti, tutto deve incontrarsi e soprattutto scontrarsi con me e con gli attori
secondo il principio o meccanismo della fortuità che, dice Bacon,
fa sì che si ottenga qualcosa di molto più profondo di ciò che avevamo pensato in origine.
Rembrandt resta per me il più grande, semplicemente perché nessun fatto luminoso riesce a emozionarmi così profondamente.
In Rembrandt non c’è più distinzione fra luce e materia: la materia è luce
e viceversa.
Mi sembra che in pittura non si possa andare oltre, l’impressionismo è un passo indietro.
A Giacometti, alla sua vita e alla sua opera ho dedicato L’ombra della sera.
Nelle sue creazioni è sempre riuscito a ritrarre il dolore scarnificato della vita.
È un artista antico, prima dei greci, quando l’arte non si distingueva dalla magia.
È stato un incontro fondamentale, i suoi scritti, la sua opera, in un momento in cui avevo bisogno che qualcuno mi ricordasse che l’arte si nutre di vita, non di arte.
Sosteneva di non riuscire veramente a vedere una testa finché non si metteva a rifarla materialmente… Questa è una delle cose che ho imparato da lui: fare teatro come lo faccio è il mio modo di vedere la vita, rifare la vita per proteggerla e imparare a vederla, vederla meglio…

SCENOGRAFIE-COSTUMI-LUCI-SUONI

Nel corso degli anni di formazione ho costruito le scene senza saperlo fare,
e così per le luci, che ho sempre trattato come fonte di emozione e racconto.
Ho cercato costumi nei mercati, che poi smontavo e ricucivo.
Ho registrato rumori dalla vita e manipolato suoni e musiche.
Ho cercato oggetti dimenticati e abbandonati.
E li ho portati in scena, concedendo loro una seconda chance.
Ho riparato ferite ma senza nasconderle.
E così ho imparato a fare il mio teatro.

DAL SILENZIO ALLA PAROLA

Dopo dieci anni di ricerca e creazioni non sapevamo ancora recitare,
e non sapevamo ascoltare.
E coì per alcuni anni, nelle creazioni, abbiamo tolto la parola.
Abbiamo smesso di parlare e abbiamo iniziato ad ascoltare.
A raccontare con le immagini, i corpi, gli oggetti, le luci e i suoni.
Ho iniziato a interrogarmi a fondo sulla voce e sulla parola,
iniziando col praticare un’arte speciale in cui le due cose coincidono:
il canto gregoriano.
L’abbiamo studiato e praticato all’Abbazia di Sant’Antimo sotto la guida di padre Emamnuel Roze.
Alla ricerca del coro,
attraverso un canto semplice e casto, con melodie che non concedono spazio all’individualità.
Una pratica che ripudia la polifonia e cerca la vertigine dell’unisono,
in cui chi canta si abbandona e diventa un mezzo.
Negli stessi anni abbiamo ospitato a Civitavecchia Maud Robart.
Sono stati solo cinque giorni, fondamentali per capire che si arriva a un punto nella ricerca in cui o si comincia a creare davvero o si smette.
Noi non abbiamo smesso.

YVES LEBRETON

Dopo questo voto del silenzio ho imparato che la voce agisce su tre livelli.
Concettuale: la parola dice, informa. La parola che racconta.
Musicale: la parola come puro fatto sonoro. La parola che canta.
Magico: il potere magico della parola, quando essa non significa ma è, agisce con una forza energetica, come un mantra. La parola che incanta.
Lo stesso vale per il corpo: l’azione, il mimo di Decroux, l’atto sciamanico.
Devo molto a Yves Lebreton e al suo teatro corporeo. Da Yves ho imparato molto sull’arte dell’attore, sull’energia che si sprigiona in scena, ma soprattutto sulla composizione, lo spazio, il tempo, il ritmo, le luci…
Ho imparato ciò che si sta dimenticando, ma non essendo un suo allievo e non essendo io un maestro temo che tutto questo sapere andrà perduto.

OPERE PER L’INFANZIA

Ho creato due opere per l’infanzia,
Il Principe Mezzanotte e Il Grande Viaggio.
E finalmente ho conosciuto il pubblico popolare,
ma ho anche visto in platea bambini che avevano già perso la capacità di meravigliarsi.
Del resto in altre platee, per fortuna, mi capita spesso di incrociare occhi vecchi e segnati dalle rughe ma luminosi, e con uno sguardo d’infanzia.
Il teatro forse può aiutare a riconquistare quello sguardo perduto,
lo stupore infantile.

VERSO UNA DISABILITÀ DELL’IO

Ho avuto la fortuna di lavorare con attori disabili,
a Bolzano e a Rimini
Ho imparato la differenza tra sfruttare e utilizzare,
ma soprattutto mi è sembrato di capire da dove provenisse tutta quella forza poetica.
Esibirsi senza pudore e senza pretendere nulla in cambio:
si dice, si agisce, ci si espone,
come abbiamo deciso di fare, come ricordo, se mi ricordo, come posso…
Senza mai compiacersi.
È una disabilità profonda e insanabile.
Una disabilità dell’io,
che è solo dei grandi attori.

DUE DEDICHE

Ho dedicato uno spettacolo a mia madre.
In H+G accade qualcosa che è accaduto nella mia infanzia ma che tutti hanno esperito in un modo o nell’altro: l’abbandono. Ma anche il ritorno a casa, l’iniziazione, la maturità. E il sacrificio che qualcuno ha compiuto per noi, perché noi vivessimo liberi da chi non è in grado di amarci.
E allora ciò che abbiamo sempre visto come un atto di egoismo in quella notte buia, il mattino dopo, alla luce del giorno, si rivela come atto d’amore.

Ho dedicato uno spettacolo a mio padre,
MACBETTU.
Un’opera che ha vinto molti premi in Italia e all’estero e che da due anni ormai sta girando il mondo.
Lo spettacolo è recitato nella lingua di mio padre, il sardo barbaricino.
La parola significa, canta e agisce su chi ascolta e così le immagini.
In scena si accendono gli archetipi.
Guardandoli e vivendoli ogni sera si impara a non confondere l’essenziale con il transitorio.
Una presa di coscienza delle mie origini ma al contempo dell’origine stessa del teatro.
In un’epoca abitata da esseri umani che, dice Rilke,
sono come alberi che hanno dimenticato di avere radici e credono che il frusciare dei rami sia la loro vita.
Le radici esistono e infondono nutrimento anche se non ce ne accorgiamo o peggio, se decidiamo di ignorarle. Qualcosa di antico e dimenticato, che comunque continua ad agire.
Il teatro è una pratica che alimenta questa connessione con la sorgente.